Ci sono foto che si pensano. Foto che si costruiscono. E poi ci sono quelle che accadono. Come un regalo inatteso. Come un colpo al cuore.
Questa immagine, tra tutte quelle raccolte nella mostra “Patronale”, è forse la più cara al mio cuore. Non per la tecnica, non per la composizione. Ma perché è una fotografia di pancia. Di quelle che ti attraversano prima ancora di essere messe a fuoco. Perché piace. Perché arriva dritta, senza chiedere il permesso.
Quel giorno avevo appena finito il lavoro. Mi ero concesso qualche scatto libero, osservando la scena attraverso il mirino, cercando piccoli dettagli da rubare tra la banda e il mare. E all’improvviso… l’ho vista. Non alzando lo sguardo, ma direttamente lì, dentro la macchina. Dentro l’inquadratura.
Una bambina, spuntata all’improvviso da dietro il muro, con uno sguardo pieno di meraviglia. Ho scattato d’istinto, con quella velocità che solo gli attimi veri pretendono. Poi ho abbassato la macchina. Lei non c’era più.
Per un istante ho pensato di averla sognata. E invece c’era. Era lì. Immortalata. Un disegno di luce in un frammento sospeso. Tutto è accaduto in un attimo fugace, fermato per l’eternità.
È una di quelle immagini che non pianifichi, ma che ti scelgono. E che ti ricordano perché ami fare questo lavoro. Perché dietro ogni fotografia che ami davvero c’è qualcosa che non puoi spiegare: istinto, cuore, pelle. Una vibrazione interna che ti dice adesso.
Nella mostra “Patronale”, l’ultima stanza è dedicata proprio a questo. Alla fotografia emotiva. Alla fotografia di pancia. Quella che non ha bisogno di didascalie o contesti, perché parla direttamente al cuore. È la sezione più intima. La più sincera. Quella che custodisce gli scatti che io e Nicola amiamo di più.
E forse, proprio per questo, è la più vera.